Divieto di denominazioni “meat sounding”, la Corte di Giustizia Europea fa chiarezza

Gli Stati membri non possono vietare l'uso di termini comunemente associati a prodotti animali, a condizione che la natura vegetale del prodotto sia chiaramente indicata.
Sofia Bondioli e Paola Sobbrio
Pubblicato il 17/11/2024

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Negli ultimi anni, le diete plant-based hanno conosciuto una crescente diffusione tra la popolazione, portando a un aumento significativo della domanda di prodotti a base vegetale. In risposta a questa tendenza, le aziende del settore hanno iniziato a denominare i propri prodotti con termini comunemente associati ad alimenti di origine animale, come “affettato”, “salsiccia” o “hamburger”, pur evidenziando chiaramente in etichetta la natura vegetale del prodotto. Questa strategia è stata adottata per rendere i prodotti plant-based più familiari e accessibili ai consumatori, facilitandone così l’integrazione nelle proprie abitudini alimentari. 

Questa pratica è conosciuta come “meat sounding”, un termine che si riferisce specificamente all’utilizzo di denominazioni comunemente associate a prodotti a base di carne per descrivere alimenti contenenti esclusivamente proteine di origine vegetale.

In seguito all’aumento della diffusione di tale fenomeno, il meat sounding è divenuto però oggetto di accese discussioni in diversi Paesi europei, alcuni dei quali hanno scelto di introdurre normative volte a vietarlo, ritenendo che potesse indurre i consumatori in errore. Il primo Paese ad intervenire in tal senso è stato la Francia, che con il decreto n. 947 del 29 giugno 2022 ha vietato «l’utilizzo della terminologia specifica dei settori tradizionalmente associati alla carne e al pesce per riferirsi a prodotti non appartenenti al regno animale». Seguendo l’esempio francese, anche l’Italia ha introdotto un simile divieto con la promulgazione della legge n. 172 del 1° dicembre 2023. All’art. 3 il legislatore italiano ha infatti vietato l’utilizzo di terminologie tipicamente associate alla carne per descrivere prodotti trasformati contenenti esclusivamente proteine vegetali, prefiggendosi l’obiettivo di tutelare il patrimonio zootecnico nazionale e assicurare una corretta informazione al consumatore.

Sebbene il decreto francese e la legge italiana rappresentino i primi interventi specifici volti a vietare l’utilizzo di termini legati alla carne per descrivere prodotti vegetali, il divieto di impiegare denominazioni associate tradizionalmente ad alimenti di origine animale per prodotti plant-based non costituisce una novità assoluta. Nel 2017, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si era infatti già pronunciata su una questione analoga, riguardante però il settore lattiero-caseario. La vicenda aveva avuto origine davanti ad un Tribunale regionale tedesco, a seguito di una controversia tra un’associazione che opera nel campo della lotta alla concorrenza sleale e la società TofuTown, che produce e distribuisce prodotti vegetali utilizzando denominazioni quali “formaggio vegano”. La Corte, con la sua sentenza ha ritenuto non legittimo l’impiego della denominazione “latte” e delle denominazioni che il regolamento (UE) n. 1308/2013 riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari per designare un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative indicanti l’origine vegetale del prodotto in questione. La base giuridica di tale decisione è stata individuata nell’articolo 78, paragrafo 2 del regolamento, che in combinato con l’allegato VII, stabilisce che denominazioni come “burro”, “formaggio” o “yogurt” possono essere utilizzate esclusivamente per prodotti derivati dal latte, definito come «il prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante mungitura, senza alcuna aggiunta o sottrazione». 

A sette anni dalla sentenza TofuTown, la Corte di Giustizia è stata però chiamata ad esprimersi nuovamente sulla possibilità di utilizzare termini tipicamente associati a prodotti animali per riferirsi ad alimenti plant based, in questo caso con riferimento però al fenomeno del meat sounding

È necessario così riportare l’attenzione al decreto francese citato in precedenza. In seguito alla sua promulgazione sono stati infatti presentati al Conseil d’État (Consiglio di Stato francese) tre distinti ricorsi di annullamento avviati dall’associazione Protéines France, dall’Unione Vegetariana Europea insieme all’Associazione Végétarienne de France e dalla società Beyond Meat. In risposta, il Consiglio di Stato francese ha ritenuto opportuno rimettere alla Corte di Giustizia alcune questioni in merito al fenomeno del meat sounding e al relativo margine di discrezionalità di cui possono disporre gli Stati Membri in questo ambito. In attesa di una risposta da parte della Corte, il giudice francese ha inoltre deciso di sospendere il decreto in questione. 

Il 4 ottobre 2024, la Corte di Giustizia ha finalmente reso nota la sua decisione nell’attesissima sentenza, giungendo a conclusioni differenti rispetto a quelle del caso TofuTown.

Vediamo cosa ha stabilito la suddetta sentenza.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), nella causa C-438/23 mette in evidenza i complessi intrecci tra regolamentazioni nazionali e il diritto europeo nel settore alimentare. Al centro della controversia troviamo il decreto francese del 2022 (successivamente modificato e abrogato con il decreto 2024-144) che, come detto, vietava in Francia l’uso di denominazioni animali per alimenti a base vegetale.

Diverse associazioni, tra cui l’Union Végétarienne Européenne e l’azienda Beyond Meat, hanno impugnato il decreto davanti al Conseil d’État francese, sostenendo che esso violasse il regolamento UE n. 1169/2011. Secondo i ricorrenti, la normativa europea stabilisce già criteri chiari sull’etichettatura, che consentono l’uso di termini riconoscibili purché non ingannevoli, rendendo ingiustificati gli interventi normativi locali.

L’Avvocata Generale della CGUE Tamara Ćapeta, il 5 Settembre del 2024, ha offerto un’interpretazione chiave del regolamento UE sostenendo che pur lasciando agli Stati membri margine su alcuni aspetti, il regolamento garantisce ai produttori libertà nel denominare i loro prodotti, purché non inducano in errore il consumatore.

In particolare l’avvocata Ćapeta  ha specificato come gli Stati membri possano stabilire denominazioni legali per determinati alimenti a patto che tali denominazioni non siano già armonizzate a livello europeo e che l’articolo 7 del regolamento vieta le denominazioni che inducono in errore, ma lascia libertà agli operatori di scegliere termini comuni, a meno che esista una denominazione legale specifica e che, inoltre, le norme francesi possono essere applicate solo ai prodotti fabbricati in Francia, non limitando quindi le importazioni e le esportazioni. Pertanto, il decreto non rappresenterebbe un ostacolo alla libera circolazione delle merci.

Il 4 ottobre 2024, la Corte di Giustizia ha emesso una sentenza che rafforza il concetto di armonizzazione normativa a livello europeo. La Corte ha stabilito che l’armonizzazione UE è vincolante, poichè  gli articoli 7 e 17 del regolamento UE 1169/2011 armonizzano espressamente le regole sull’etichettatura, vietando agli Stati membri di introdurre misure nazionali aggiuntive che limitino l’uso di denominazioni di origine animale per alimenti vegetali, purché l’etichettatura non induca in errore.

La Francia non può, quindi, impedire l’uso di denominazioni comuni, come “bistecca” o “salsiccia”, per prodotti a base di proteine vegetali, a condizione che la composizione vegetale del prodotto sia chiaramente indicata.

Inoltre, la Corte ha confermato che le sanzioni amministrative nazionali rimangono valide se proporzionate e efficaci, ma ha respinto la possibilità per uno Stato membro di stabilire soglie di proteine vegetali al di sotto delle quali è ammesso l’uso di denominazioni animali. Tale pratica violerebbe l’armonizzazione europea, creando barriere alla libera circolazione delle merci.

Con questa decisione, la CGUE rafforza il principio che i prodotti vegetali possono utilizzare termini comunemente associati a prodotti animali, in linea con le norme sull’etichettatura dell’UE, promuovendo al contempo un’informazione chiara per i consumatori. Questo importante precedente favorisce il libero mercato e incoraggia una normativa europea sempre più coerente e in armonia con le esigenze del settore alimentare.

Inoltre, la decisione facilita il percorso verso una maggiore accettazione dei prodotti vegetali, promuovendo la sostenibilità ambientale nel quadro della strategia “Farm to Fork“. 

In seguito a questa sentenza crollano completamente i divieti previsti dalla legge italiana n° 172/2023 di cui abbiamo parlato qui e in linea con i cambiamenti della società e dei consumi anche i pregiudizi demagogici che hanno portato alla sua approvazione.

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