Nel 2020, il Parlamento Europeo aveva respinto il tentativo portato avanti dalla lobby dell’agribusiness di vietare termini come “burger” o “salsiccia” per i prodotti a base vegetale, riconoscendo che i consumatori europei sanno distinguere perfettamente tra un burger di manzo e uno di soia.
Nel frattempo, la Francia aveva approvato una legge particolarmente restrittiva, poi di fatto svuotata dalla Corte di Giustizia dell’UE nell’ottobre dello scorso anno, che aveva sancito il principio di diritto secondo cui gli Stati membri non possono vietare l’uso di termini comunemente associati a prodotti animali, a condizione che la natura vegetale del prodotto sia chiaramente indicata.
Sembrava che questa sentenza avesse posato la pietra tombale sulla questione, eppure nella seconda metà del 2025 il dibattito si è riaperto e il settore plant-based si trova oggi a fronteggiare una nuova minaccia legislativa che rischia di imporre un bavaglio linguistico all’innovazione sostenibile.
La Commissione europea ha infatti fatto propria la posizione di Italia, Francia e altri Stati membri che puntano a preservare i propri settori produttivi tradizionali, salvandoli dall’avanzata dei prodotti alternativi, presentando a luglio scorso una proposta legislativa per limitare l’uso di 29 termini “tradizionali” (come pollo, bacon e bistecca).
Nell’esaminare la proposta, il Parlamento europeo ha approvato un emendamento ancora più severo, che punta a cancellare anche le denominazioni più comuni come “burger” e “salsiccia” associate a prodotti vegetali, su spinta della relatrice Céline Imart, allevatrice e membro della Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. L’attuale Europarlamento ha infatti una composizione più spostata a destra rispetto a quello precedente e risulta più sensibile alle pressioni delle lobby dell’agribusiness.
Ciò che rende l’attuale situazione a Bruxelles particolarmente caotica è la presenza di due diversi percorsi legislativi che corrono in parallelo, con regole e tempistiche differenti.
La proposta della Commissione Europea rientra nell’ambito della revisione periodica dell’Organizzazione Comune di Mercato (OCM), che fa parte della Politica Agricola Comune (PAC). La proposta vieterebbe di utilizzare 29 termini specifici come “pollo”, “bacon”, “petto”, “ala” e “coscia”. Se approvata, questa misura entrerebbe in vigore probabilmente nel 2028.
Parallelamente, l’eurodeputata Céline Imart ha proposto una revisione “mirata” dell’OCM con l’obiettivo di rafforzare la tutela degli allevatori. La proposta, approvata dall’Europarlamento, prevede restrizioni molto più severe, che mirano a vietare qualsiasi termine legato a specie animali, tagli di carne o persino forme associate ai prodotti convenzionali. Includerebbe anche termini come “bistecca”, “scaloppina”, “hamburger”, “burger” e “salsiccia”. Il piano Imart vieterebbe anche l’uso di nomi evocativi della carne anche per la carne coltivata, non ancora in commercio in Europa.
Il Parlamento europeo si è espresso favorevolmente su questa proposta più restrittiva l’8 ottobre (355 voti contro 247).
Lo stallo dei negoziati (triloghi)
Nonostante la spinta del Parlamento, il fronte degli Stati membri resta profondamente diviso, con Germania e Danimarca in prima linea nel bloccare il divieto. Il Ministro dell’Agricoltura tedesco, Cem Özdemir, ha più volte espresso scetticismo verso restrizioni che considera “inutili e gravose”, sottolineando come la priorità debba essere la semplificazione burocratica e il sostegno a un sistema alimentare che favorisca la libertà di scelta dei consumatori. Contro la proposta si erano levate forti proteste dalla grande distribuzione, considerato che giganti come LIDL e ALDI stanno puntando moltissimo sul settore plant-based.
Sulla stessa linea si è mosso il Ministro dell’Agricoltura danese e presidente di turno del Consiglio UE, Jacob Jensen, per il quale imporre tali restrizioni rappresenterebbe un ostacolo alla transizione ecologica. Va segnalato che la Danimarca crede particolarmente nella transizione verso un sistema alimentare più sostenibile, avendo investito attraverso un piano d’azione nazionale per il supporto al settore plant-based.
Lo scorso 10 dicembre 2025, i riflettori erano puntati su Bruxelles per il cosiddetto “Trilogo”, l’incontro decisivo tra Commissione Europea, Parlamento e Consiglio per negoziare il testo finale della riforma dell’Organizzazione Comune dei Mercati (OCM), in cui confluiva la proposta di inserimento dei nuovi termini vietati in etichetta.
L’esito? Un nulla di fatto. Non è stato infatti raggiunto alcun accordo sul testo finale, poiché Consiglio e Parlamento non sono riusciti a trovare una posizione comune sulle restrizioni alle etichette vegetali. Affinché sia completato l’iter necessario per produrre nuove leggi europee, infatti, non basta il semplice voto del Parlamento (dove siedono i rappresentanti eletti dai cittadini) ma occorre anche che venga raggiunta una posizione comune con il Consiglio, che rappresenta gli Stati membri.
La buona notizia è che, almeno per ora, nessun divieto è stato ancora approvato in via definitiva. La mobilitazione dell’opinione pubblica e la pressione mediatica hanno giocato un ruolo cruciale nel bloccare un accordo che sembrava scontato, aiutando la presidenza danese a mantenere una posizione critica verso il divieto.
La cattiva notizia è che i negoziati non sono stati cancellati, ma semplicemente rinviati. Riprenderanno a gennaio 2026, durante il semestre di presidenza cipriota, con l’obiettivo politico di chiudere la questione entro la primavera.
Non è solo una questione di parole
Le conseguenze economiche e pratiche di un divieto sarebbero pesantissime. Se queste norme dovessero passare, le prime a subire un danno sarebbero ovviamente le aziende del settore (molte delle quali start-up), che sarebbero costrette a cambiare packaging, rifare il branding e le strategie di marketing. Un’operazione costosa, che frenerebbe gli investimenti e rallenterebbe l’impulso del settore, che negli anni ha continuato a crescere a ritmi serrati.
I sostenitori del divieto affermano di voler evitare che i consumatori si confondano, acquistando ad esempio delle salsicce vegetali al posto di quelle di carne. Ma i dati dicono l’opposto: secondo il BEUC (l’Organizzazione Europea dei Consumatori), l’80% delle persone non ha problemi con le etichette attuali, anche perché i prodotti vegetali sono ormai esposti in scaffali o sezioni separate, riducendo al minimo ogni possibile rischio di confusione.
Oltretutto, molti parlamentari europei – tra cui l’italiano Dario Nardella, ex sindaco di Firenze – hanno dichiarato di aver votato a favore per salvaguardare le “eccellenze” locali, come la fiorentina. La tutela dei consumatori è quindi niente più che fumo negli occhi, per dare una giustificazione di comodo a questa intrusione della politica nelle scelte dei consumatori, che puntano sempre più nella direzione del plant-based.
La vera confusione nascerebbe se domani, cercando un burger vegetale, ti trovassi costretto a cercare “dischi vegetali” o “tubi a base di proteine di pisello”. Un cambio di etichette così strambo, infatti, potrebbe dissuadere i consumatori meno informati. E forse è proprio questo a cui mira vuole l’industria della carne, che spera così di recuperare terreno o quantomeno di rallentare la “rivoluzione verde” che sta avanzando
Il ruolo dell’Italia
L’Italia sta giocando un ruolo di “apripista” in questa tendenza restrittiva, sebbene con risultati controversi.
Il governo italiano aveva già approvato una legge per vietare il meat-sounding, ma ad oggi risulta inapplicabile poiché non è stata notificata correttamente alla Commissione Europea tramite la procedura TRIS.
Più recentemente, l’Italia ha notificato a Bruxelles una proposta di decreto che introduce sanzioni pesanti (da 4.000 a 32.000 euro) per chi usa termini come “latte”, “burro” o “formaggio” per prodotti vegetali. Questo decreto introduce il termine giuridicamente ambiguo di “evocazione”, che potrebbe colpire non solo i nomi, ma anche la forma, il colore o il packaging (come le “vaschette” o descrizioni come “cremoso”).
Cosa facciamo noi di REFOOD
Noi di REFOOD siamo in prima linea in questa battaglia cruciale per il futuro dell’alimentazione sostenibile, come membri di RIPA – Rete Italiana per le Proteine Alternative, che abbiamo contribuito a far nascere.
In queste settimane, insieme alle altre organizzazioni europee partner, stiamo esercitando pressione sulle istituzioni europee e nazionali, con l’obiettivo di garantire che la legislazione non ostacoli l’innovazione, ma anzi sostenga attivamente la transizione verso sistemi alimentari più etici e sostenibili.
La situazione è ancora aperta, perché tra gli Stati membri ve ne sono alcuni apertamente contrari a questa stretta. Emblematica al riguardo è la dichiarazione del ministro Jacob Jensen:
“Il Consiglio Europeo non è riuscito a raggiungere oggi un accordo con il Parlamento Europeo sull’adeguamento dell’organizzazione comune dei mercati agricoli. Per noi era importante ridurre al minimo le norme inutili e gravose e, d’ora in avanti, dobbiamo prendere più seriamente le raccomandazioni del Rapporto Draghi. Questo vale sia per le regole sui contratti scritti sia per l’uso delle denominazioni della carne.”
Continueremo a informarvi sugli sviluppi. La partita è ancora aperta e il contributo di tutti, dalla pressione mediatica al sostegno alle aziende del settore, resta fondamentale.
