Il 26 maggio 2025, il Governo italiano ha notificato alla Commissione europea tramite il sistema TRIS (Technical Regulation Information System), una proposta normativa volta ad aumentare in maniera significativa le sanzioni amministrative per l’uso di denominazioni “milk sounding” da parte di produttori e venditori di alimenti vegetali.
La modifica notificata riguarderebbe l’inserimento di un nuovo Capo il II-bis nel decreto legislativo 231/2017 – Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011 – attraverso l’inserimento di un nuovo articolo 7bis, specificamente dedicato alle violazioni delle norme europee sulle denominazioni riservate ai prodotti lattiero-caseari.
Il nuovo testo punta ad inasprire le sanzioni ma anche ad adottare un’interpretazione assolutamente restrittiva del Regolamento (UE) n. 1169/2011.
Il nuovo articolo stabilisce che:
«Chiunque prepara, produce, confeziona, detiene, vende, pubblicizza o comunque mette in commercio prodotti alimentari utilizzando denominazioni che usurpano, imitano o evocano quelle di latte o derivati in violazione dell’allegato VII del Regolamento (UE) n. 1308/2013, sarà soggetto a sanzioni amministrative da 4.000 a 32.000 euro, oppure fino al 3% del fatturato annuo nei casi in cui quest’ultimo superi i 32.000 euro»
Inoltre, è previsto il sequestro della merce e di ogni materiale utilizzato nella violazione, con finalità di confisca e distruzione. La sanzione massima non potrà comunque superare i 100.000 euro.
La disposizione si applica anche ai casi in cui il termine “latte” o “formaggio” venga accompagnato da indicazioni esplicative (es. “latte di mandorla”) o da locuzioni negative (es. “formaggio non caseario” o “non formaggio”).
Infine, la norma esclude il pagamento in misura ridotta previsto dalla legge 689/1981, rendendo quindi non disponibile il ricorso al pagamento agevolato della sanzione.
Per avere un’idea della portata della norma, basti considerare che sanzioni di questa entità non sono previste nemmeno per l’omissione in etichetta di allergeni, una violazione potenzialmente letale per soggetti allergici.
Cosa dice il diritto europeo
Una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel 2017 si era già pronunciata su un questione riguardante il settore lattiero-caseario per cui con la sua sentenza ha ritenuto non legittimo l’impiego della denominazione “latte” per designare un prodotto puramente vegetale poiché il regolamento (UE) n. 1308/2013 riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari questa possibilità, è per questo motivo che sul mercato italiano ed europeo oggi troviamo bevande vegetali, e non “latte di soia” o “latte di avena” in senso stretto.
Tuttavia, la giurisprudenza europea più recente suggerisce un’evoluzione interpretativa.
Nel caso C-438/23 del 26 ottobre 2024, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha annullato un decreto francese che vietava l’uso di termini carnei (come “salsiccia” o “bistecca”) per prodotti vegetali. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
La Corte ha stabilito che non esistono prove sufficienti che tali denominazioni inducano in errore i consumatori, e ha anche precisato che il Regolamento FIC (fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori) UE 1169/2011 garantisce già regole severe a tutela della trasparenza informativa.
La Corte ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per dimostrare che tali denominazioni inducano in errore i consumatori.
Sebbene questa più recente sentenza non riguardasse direttamente le denominazioni lattiero-casearie, il principio è rilevante: non si può vietare una denominazione solo perché richiama un prodotto noto se il consumatore non viene confuso, e se la finalità è puramente descrittiva o d’uso (es. “formaggio grattugiato vegetale”).
Probabilmente il Governo italiano non ha tenuto conto dello scarto temporale e culturale tra la sentenza del 2017 e quella del 2024. Non si tratta solo del passare del tempo, ma di un profondo cambiamento nei comportamenti e nella consapevolezza dei consumatori, che oggi scelgono prodotti vegetali per motivi etici, salutistici e ambientali, non certo per confusione con i prodotti tradizionali.
I consumatori sanno perfettamente cosa stanno acquistando e lo fanno in piena consapevolezza. Quella del Governo è, quindi, solo un’anacronistica chiusura al cambiamento.
Inoltre, non si considera l’impatto negativo che l’inasprimento sanzionatorio potrebbe avere proprio su quel settore agroalimentare che il Governo in ogni luogo ed in ogni mento afferma di voler tutelare. Molte aziende del comparto agroalimentare tradizionale hanno già riconvertito parte della produzione verso il plant-based – basti pensare a Granarolo, Amadori, Nestlè – intercettando una domanda in forte crescita.
Questa iniziativa si inserisce in una tendenza regressiva e repressiva che si oppone alla direzione tracciata dal Green Deal Europeo, gli obiettivi dell’Agenda 2030, i report di FAO e ONU, le moderne linee guida nutrizionali e le nuove preferenze dei consumatori.
Invece di proteggere le produzioni tradizionali con strumenti rigidi e anacronistici, sarebbe più utile sostenere l’evoluzione del sistema alimentare, che già si sta adeguando all’evoluzione del mercato, con misure inclusive, equilibrate basate su dati, scienza e libertà di scelta.